Questo post è nato con l’idea di raccontare lo smart working degli architetti/e nell’emergenza Covid19 e mi è rimasto “nella penna” per un anno: l’ho scritto a maggio del 2020, appena concluso il primo lockdown; l’ho aggiornato durante l’estate, con l’evolversi della situazione generale; l’ho modificato a fine settembre, quando tutto è di nuovo peggiorato; e l’ho infine interrotto a novembre, dopo aver ricevuto l’esito positivo del mio tampone. Non sono più riuscita a scrivere nulla sul blog. Lo riprendo ora, per provare ad archiviarlo e ad andare oltre, nella speranza dell’inizio di una nuova fase.
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È trascorso più di un anno dai giorni in cui iniziò il lockdown dovuto all’emergenza Covid19, ma com’è cambiato il lavoro di architetti ed architette con lo smart working, in questo periodo così difficile? Forse per qualcuno non ci sono state grandi differenze “operative” – penso per esempio a chi lavora come singolo/singola professionista – ma per chi, come me, collabora con uno studio di grandi dimensioni, il cambiamento c’è stato, eccome.
Come sempre le situazioni sono molto soggettive e cambiano sulla base di tanti fattori: il posto in cui si vive, il proprio stato familiare, come si lavorava “prima”, etc.; ne consegue, com’è ovvio, che quanto scritto qui è basato più che altro sulla mia esperienza personale.
Ci arrivo dopo due premesse (che volendo potete saltare).
La prima: ci hanno detto già in tutti i modi che quello che abbiamo sperimentato non è smart working e che la parola smart working nemmeno esista, nei paesi di lingua anglosassone. La distinzione che va fatta è quella fra il “lavoro agile” e il “lavoro da remoto”. Per lavoro agile si intende un lavoro a progetto che la persona può organizzare sulla base delle proprie esigenze: vuole lavorare di giorno, di notte, a giorni alterni, nel weekend? Da casa, dalla spiaggia, da una baita di montagna? Ci mette due ore o ce ne mette dieci? Poco importa: basta che, per la scadenza dovuta, il lavoro sia pronto. Il lavoro da remoto – per chi ha/aveva un lavoro da “dipendente” o comunque svolto in quotidiana collaborazione con altre persone (colleghi, consulenti, altri professionisti), regolato da un orario comune – è semplicemente lo stesso lavoro di prima, basato sugli stessi orari condivisi, ma svolto da una sede diversa (la propria abitazione). Che comunque non è poco come cambiamento.
Seconda premessa: credo si possa affermare che architetti ed architette lo smart working l’abbiano praticamente inventato, e così tutti i liberi professionisti e le libere professioniste a partita Iva. In che termini? Nel fatto di doversi periodicamente reinventare un modo di lavorare e di rapportarsi con un settore che è in continua evoluzione. Nel fatto di dover cambiare spesso anche le modalità di comunicare questo proprio lavoro, di rappresentarlo e trasmetterlo agli altri, che siano clienti o potenziali clienti, colleghi, consulenti e collaboratori, aziende, fornitori, imprese e personale di cantiere. Nel fatto di dover lavorare spesso proprio dal cantiere, appendice naturale dell’ufficio, dove può capitare di trovarsi a disegnare e scrivere sui muri, o di comunicare informazioni tramite foto via whatsapp o nei modi più creativi, o di dover essere in più posti contemporaneamente, per avere tutto sotto controllo. Se non è “smart”, se non è “agile” questo, non so che cosa lo sia.
Arrivo al dunque.
Non tutti gli architetti/e svolgono lo stesso lavoro: c’è chi lavora singolarmente, ci sono gli studi piccoli e medi, gli studi o le società di taglio più grande, c’è chi lavora per le aziende, chi per le pubbliche amministrazioni. L’esperienza del lavoro durante il lockdown per questi professionisti così diversi è stata per forza di cose differente.
Come ho raccontato più volte (qui e qui, per esempio), la mia è l’esperienza di chi lavora per una società di ingegneria con un numero elevato di collaboratori, circa ottanta, divisi fra sede principale, uffici di cantiere e fuori sede. In ufficio ci sono più di sessanta postazioni, non sempre tutte occupate contemporaneamente. Ovvio che non si potesse continuare a lavorare come prima, nemmeno passato il primo periodo di lockdown.
Quindi il mio smart working ha vissuto queste fasi:
marzo-aprile 2020: totale trasferimento del lavoro da ufficio a postazione in remoto (casa) / chiusura cantieri
maggio-settembre 2020: vero smart working o meglio lavoro veramente “agile” / riapertura cantieri
settembre-ottobre 2020: rientro in ufficio per tutti secondo un calendario alternato che consentisse una presenza quotidiana di circa la metà delle persone al massimo
da novembre 2020: ritorno alla fase 2, ma con più stanchezza e minore convinzione.
La prima fase è iniziata come per tutti senza troppo preavviso, salutandosi in ufficio il venerdì sera e ritrovandosi il lunedì mattina a lavorare in pigiama da casa. La fortuna per noi è stata che il nostro sistema fosse già pronto a questa eventualità ed è stato così possibile fin da subito collegarsi al server da remoto e lavorare.
Non abbiamo quindi mai smesso di lavorare, nonostante lo stop dei cantieri, perché fortunatamente avevamo in corso dei lavori di progettazione “di lunga durata”: ma se il lockdown fosse andato oltre, non sono certa che il lavoro sarebbe continuato.
Il plus di quel periodo – ma anche l’incubo – sono state le piattaforme di comunicazione per chat in tempo reale, condivisione contenuti e teleconferenze: quella aziendale è Microsoft Teams, che abbiamo amato e odiato, a seconda dei momenti. La reperibilità è diventata continua e tendenzialmente ossessiva.
In questo primo periodo si sono alternati per me giorni di grande produttività – rifugiarmi nel lavoro mi impediva di soffermarmi troppo su quanto vedevo accadere fuori dalla mia casa – ed altri in cui concentrarsi sul lavoro mi è sembrato impossibile e senza senso, rispetto alla drammatica situazione in cui ci si trovava: mi sono detta che fosse del tutto normale e che non potevo farmene una colpa.
La seconda fase è stata per me molto positiva (ma non tutti l’hanno vissuta allo stesso modo): sono riuscita a trovare un equilibrio fra il lavoro da casa e una media di una o due giornate in ufficio. In questo modo ho limitato gli spostamenti, contribuendo a ridurre il numero di persone in giro sui mezzi pubblici (in città io mi muovo solo così o in bicicletta), ma allo stesso tempo sono riuscita ad occuparmi anche di quegli aspetti del lavoro più macchinosi da svolgere a casa e ho ripreso un contatto più diretto con colleghi e colleghe. Potermi organizzare abbastanza liberamente su come/dove/con che tempi lavorare mi ha ridato una chiara idea di come la libera professione dovrebbe davvero essere.
È stato il periodo in cui in ufficio capitava di vedere i computer lavorare da soli: erano in realtà i colleghi che da casa usavano il PC del lavoro come macchina virtuale. È stata anche la fase in cui si è vista in modo più evidente la differente reazione delle persone: qualcuno ha sentito subito l’esigenza di tornare a vivere le relazioni di lavoro in ufficio, avendo particolarmente patito il lavoro “in solitaria” da casa, qualcun altro ha più che felicemente continuato a lavorare da casa e non si è comunque fatto vedere in ufficio, se non quando espressamente convocato/a. Anche fra i “non local”, la distinzione è stata fra chi è tornato a casa appena ha potuto e ci è rimasto a lavorare in smart working fino a nuova indicazione (e oltre) e chi invece è rimasto a Milano quasi per tutto il periodo, scegliendo di evitare grandi spostamenti e di rendersi disponibile a presentarsi in ufficio o in cantiere quando necessario. Questo è dipeso molto anche dal ruolo che ognuno riveste sul lavoro e non mi sento quindi di poter giudicare un comportamento o l’altro (ma chissà, forse implicitamente lo sto facendo).
Vero è che quando si è passati alla terza fase, è emerso che i/le boss non fossero del tutto contenti/e del rendimento del lavoro delle singole persone durante le prime due fasi di lockdown e smart working.
Si è così ripreso ad andare in ufficio con un calendario di presenza condiviso, per fare in modo che l’ufficio non vedesse mai più del 40% di affluenza contemporanea, ma anche per avere un riscontro più diretto sull’operato dei singoli. Il numero settimanale dei giorni di presenza non è stato però uniformemente distribuito fra le persone e questo ha causato scontento. Per sintetizzare: chi era già molto presente prima è stato confermato con più giorni in ufficio, chi già lo era poco ha continuato a lavorare in prevalenza da casa. Quindi l’idea dell’aumento del controllo sul lavoro dei singoli sembrava perdere totalmente senso.
Il mio calendario prevedeva lavoro in ufficio per 4 giorni su 5 ed un giorno di smart working, con visite in cantiere quando strettamente necessario. Tutte le riunioni esterne sono rimaste organizzate tramite call online, mentre le riunioni interne, a piccoli gruppi, si sono svolte (a volte) in presenza, cercando di rispettare il distanziamento ed usando sempre la mascherina (e giocando a battaglia navale per far combaciare i giorni di presenza dei convocati alla riunione). Scrivanie sufficientemente grandi da garantire il distanziamento e il rispetto del protocollo di misurazione della temperatura e di sanificazione delle mani ad ogni ingresso in ufficio facevano il resto. Era necessario insomma fare un po’ di attenzione, ma niente di straordinariamente complicato.
[…]
Pochi giorni dopo aver scritto queste parole ho scoperto di essere positiva al Covid19, pur fortunatamente senza sintomi: quindi, nonostante l’attenzione che ci si possa mettere, è tutto straordinariamente complicato.
Questo mio momento personale è coinciso con una “quarta fase” in cui la società ha deciso che, visto il peggioramento generale della situazione, non fosse auspicabile chiedere a nessuno di doversi attenere ad un calendario di presenza. Da quel momento ognuno/a ha deciso come proseguire nel lavoro.
Personalmente, passato il mio periodo di isolamento e tornata negativa, lavoro in ufficio 3 giorni alla settimana e la mia produttività da casa sembra crollare ogni giorno di più, in attesa della prossima “fase”. Credo che per essere veramente “smart”, il lavoro abbia bisogno sì di flessibilità, ma anche di relazione, confronto e scambio, altrimenti ne esce davvero impoverito.
Concludo qui e non so sinceramente per quanti questo post possa davvero essere interessante, ma in questo periodo mi sono accorta che è estremamente facile adattarsi camaleonticamente alle situazioni e quindi ho sentito l’esigenza di scriverlo più che altro per me stessa, per ricordarmi di ciò che questo periodo ha rappresentato per me anche a livello lavorativo, perché quanto ha significato a livello umano è certamente molto più difficile da dimenticare.
[curiosità: le immagini di questo post ritraggono tutte le mie personali postazioni di smart working]
Posted by:Archinoia
Architetta milanese, aspirante viaggiatrice seriale, lettrice compulsiva, fotografa dilettante, con una peculiare ossessione per il beachcombing.
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